Si avete letto bene: Izmit, non Izmir. Come ci siamo arrivati? Facciamo un passo indietro.
Partiamo da Sofia alle prime ore del mattino. Siamo contenti della scelta che abbiamo fatto: andare alla frontiera la mattina, ma soprattutto andarci di lunedì ed evitare, cosi’, le temibili orde turche del week-end.
L’autostrada da Sofia a Svilengrad scorre libera, a stento si vede una macchina e quelle poche che si vedono hanno inevitabilmente targa tedesca e certamente sono gli ultimi ritardatari dell’orda.
Arrivati all’ultimo avamposto bulgaro di confine, Kapitan Andreevo vediamo la Turchia davanti a noi e la Grecia alla nostra destra. Soprattutto, pero’, vediamo qualcosa che non ci piace. A quanto pare l’orda turca non fa distinzione tra giorni della settimana, come gli gnu che migrano nel Serengeti. Davanti a noi 4 chilometri di coda.
Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere. Detto fatto, inizia a piovere. Smettera’ solo dopo due ore e ce ne resteranno altre quattro di attesa.
Fiumi di macchine che avanzano con la velocità dei cantieri a Piazza Municipio. Qualche camionista, più abituato a queste attese, estrae una specie di mensola dal fondo del camion e inizia a preparare da mangiare e del te’.
Gente passeggia nervosamente per ingannare il tempo.
Dopo cinque ore di paziente attesa arriviamo alla frontiera. Prima il controllo dei bulgari. Poi un’ altra ora di attesa, tanto per gradire, nella terra di nessuno. Enorme e’ il sollievo quando il poliziotto di frontiera turco ci mette il timbro di entrata nel passaporto. Ma il sospiro di sollievo ci rimane strozzato quando al secondo gabbiotto di controllo indovina chi scelgono per un’ispezione approfondita?
Il poliziotto ci invita ad andare al Hangar 3 per il controllo. Un altro poliziotto ci fa aprire il furgoncino, pigramente si affaccia all’interno e richiude il portellone. Possiamo andare, penso. Il poliziotto, pero’, mi guarda e mi chiede di dargli libretto e assicurazione. Glieli do. Li guarda e poi dice “park the car somewhere, then come back and find me“. Parcheggiamo la macchina in uno spazio appena liberatosi affianco ad una macchina completamente accartocciata e visibilmente appoggiata li’ da giorni in attesa di capire il suo destino.
Torniamo e troviamo il poliziotto come ci aveva chiesto. “Follow me”, dice. Lo seguiamo fino a un gabbiotto all’interno del quale due poliziotte e due poliziotti impastano scartoffie. Una folla si accalca disordinatamente davanti agli sportelli del gabbiotto. La maggior parte, ci sembra di capire, devono fare l’assicurazione per poter entrare nel territorio.
Il nostro poliziotto dice al poliziotto nel gabbiotto qualcosa che inizia con Italiyan. Credo di aver sentito “Italyan, Rum Casusu Çikti” (citazione musicale di alto livello). Poi si gira verso di noi e dice: “When you finish, find me“. Nemmeno il tempo di chiedere “Finish what?” che e’ gia’ scomparso a controllare altre macchine.
Ok, ha spiegato all’altro poliziotto cosa dobbiamo fare: un attimo che finiscono quelli davanti a noi e ci siamo. O quasi. Appena arriva il nostro turno, il poliziotto si alza e se ne va. Arriva un’altra poliziotta che ha il pregio di essere molto carina, ma il difetto di non aver sentito la spiegazione (Italyan, Rum Casusu Çikti) data all’altro poliziotto. Mi chiede qualcosa in turco (ho indubbiamente l’aspetto di un turco), credo mi abbia chiesto se devo fare l’assicurazione. In inglese gli dico di no.
Lei mi chiede: e allora che devi fare?
Io: e che ne so, lo sa il tuo collega, ma se ne e’ andato. Poi ci provo: ehm, Italyan, Rum Casusu Çikti?
Lei: Ok, aspettate qui. E chiama un’ altro poliziotto. Il quale dopo averci pensato su un attimo ci dice, indovina un po’, aspettate qui. E scompare. Per fortuna torna il poliziotto che sapeva del Casusu Çikti, che blocchiamo immediatamente.
Ci chiede: Where are you going?
Francesco: Mongolia
Lui: Where?
Francesco, sorridendo: Mongolia
La faccia sua, ma soprattutto della poliziotta e’ sbigottita, come se Francesco avesse detto “Luke I am your father“.
Ci mette un timbro sul passaporto. Troviamo l’altro poliziotto: “oh, you found me, now you can go“, manco fosse un vecchio maestro spirituale dei film orientali.
E cosi’ entriamo finalmente in Turchia e alla nostra destra, in lontananza, vediamo una splendida moschea di Edirne, costruita da Sinan. Li’ mi viene il dubbio: Ma Edirne non era Adrianopoli? Fammi vedere su wikipedia, va. Non mi apre la pagina di wikipedia. Deve essere la nuova scheda dati turca, forse non funziona un granché. Invece no, va benissimo su internet. Semplicemente il buon Erdogan ha pensato bene che wikipedia gli stava sul culo e la ha resa inaccessibile in Turchia.
L’autostrada scorre libera fino alle porte di Istanbul. Li’, prevedibilmente troviamo una lunga coda. La lunga coda e’ talmente prevedibile che c’e’ gente che vende acqua, cibo e bevande in mezzo alla strada (qualcuno lo fa mentre parla al cellulare).
Ma stavolta l’attesa non e’ lunga e snervante come alla frontiera. Un’oretta appena e, finalmente, lasciamo l’Europa per l’Asia attraversando un ponte sul Bosforo. La luce non e’ perfetta (ha gia’ tramontato ma non si sono ancora accese le luci della notte), ma la vista e’ comunque spettacolare.
Sembra chiaro, ormai, che raggiungere Samson come da programmi e’ utopia. E’ arrivata la notte e bisogna fermarsi in qualche città’ di strada verso Trabzon, che sarà la prossima meta. Logisticamente, la più’ comoda e’ Izmit, antica Nicodemia, fondata da Nicodemo II, re della Bitinia (sono andato su wikipedia con una VPN, tie’).
Ci aspettano ora dodici ore fino a Trabzon, ma poi finalmente sarà Georgia e finalmente la prima pausa.