Salutata Alif, partiamo da Trabzon diretti in Georgia. La strada da Trabzon a Sarpi, citta’ che segna l’inizio della Georgia, costeggia il Mar Nero attraversando una miriade di città’ l’una uguale all’altra, purtroppo caratterizzate da palazzoni anni cinquanta che stuprano una costa che per rilievo e varietà sarebbe pure molto bella.
Ripenso alla canzone di ieri sera, Karadeniz Karadeniz, quella dedicata al mar nero. Credo di aver capito cosa dicesse: “O mare nero, mare nero, mare nero, tu eri chiaro e trasparente come me“. Francesco mi guarda malissimo.
Arriviamo al confine con la Georgia. Superiamo una fila di camion di due chilometri, sulla corsia riservata alle auto. Incredibilmente non c’e’ nessuno e siamo gia’ alla frontiera. Anzi no. Un poliziotto, con un fischio, ci indica di andare su una strada a sinistra, dove c’e’ una lunga coda: la fila delle macchine e dei bus.
Ci mettiamo in fila, ad occhio, dovrebbe volerci un’oretta e mezza. Ne approfittiamo per la prima riparazione alla Gengis Khar: va sostituita una lampadina del faro davanti e ne approfittiamo per un controllo a olio e acqua.
Ci mettiamo quindi a intrattenere (o meglio molestare) le persone in fila suonando chitarra e fisarmonica. Propongo un “Georgia on My Mind“, di buon auspicio. Francesco non mi guarda male, ma prende anche lui a suonarla.
Un signore Georgiano, incuriosito dalla nostra macchina variopinta, indicando vari punti sulla mappa incollata sul cofano, in Russo, ci fa molte domande sul viaggio. Gli chiediamo: quanto durerà l’attesa? una, due ore?
– четыре часа, quattro ore, ci dice.
Ci intratteniamo continuando a suonare e coinvolgendo due turchi che provano a parlarci in turco e ai quali siamo solo in grado di ripetere Italiya’dan Mogolistan’a gidiyoruz. Andiamo dall’Italia alla Mongolia. Forza, andiamo di fretta, fateci passare maledetti poliziotti di frontiera!
C’e’ una spiaggia proprio sul posto di confine. Si approfitta per scendere a fare un bagno (anche se per farlo bisogna avventurarsi su una scala arrugginita con molti gradini sfondati e un terribile tanfo di sterco e urina).
Finalmente siamo alla frontiera. Il poliziotto turco dice a Francesco di scendere. I passeggeri devono fare una fila a parte. Esco dalla frontiera turca senza problemi e mi avvicino a quella georgiana.
Un attimo prima del controllo passaporti, un poliziotto dal tipico volto caucasico e dallo sguardo torvo ispeziona le vetture in coda. Blaterando qualcosa in georgiano apre il portellone del furgone e inizia a guardare dentro. A un certo punto fa una specie di “wow”. Qualche oggetto deve aver attirato la sua attenzione. Poi, pero’, per fortuna se ne va.
Stavolta, per una volta, sono riuscito ad evitare di essere fermato per l’ispezione. Anzi no.
Il poliziotto torna con un collega che mi dice:
-Контроль, може? Controllo, si può?
– Конечно (certo) dico io.
E ancora una volta accosto la macchina nell’hangar dei controlli. Attendo che un poliziotto dal volto meno caucasico ma dallo sguardo ancora più torvo finisca di controllare altre macchine e poi e’ il turno della mia. Il poliziotto non parla ne’ russo ne’ inglese. Ispeziona la macchina finche’ non si sofferma su un oggetto in particolare. Lo palpeggia, lo gira, e rigira e si volta verso di me come per dire: spiegami che ci fa questo qui.
E’ il parrucchino di Donald Trump. Comincia ad alzare la voce e a chiedere spiegazioni, che non gli so dare, non nella sua lingua. Faccio: “Joke, шутка”. Ma non credo di averlo convinto. Mi dice, con fare minaccioso, di seguirlo in un gabbiotto dove c’e’ un altro poliziotto. L’altro poliziotto parla inglese. Mi chiede il perché del parrucchino. Riprovo con a joke, you know, for funny pictures, ma la sua espressione rimane corrucciata.
A un certo punto ho un lampo. Esclamo: Donald Trump!
Tutti e due i poliziotti, anche quello che parla solo georgiano, scoppiano in una risata ed esclamano in coro: Donald Trump. Iniziano a mettersi il parrucchino e a ridere. Poi mi lasciano andare. Dopo altre ottantadue domande del poliziotto al controllo passaporti sono in Georgia.
All’uscita centinaia di macchine si ammassano disordinate nell’attesa dei passeggeri che stanno ultimando il controllo. Ma dov’e’ Francesco?
Lo cerco in giro, ma lo vedo arrivare solo dopo dieci minuti. Mi racconta che il poliziotto non credeva fosse italiano ed aveva deciso che fosse turco e lo ha tempestato di domande. Non so se abbiamo il volto da turchi, ma sicuramente lo abbiamo da sospetti.
Abbiamo perso sei ore e quindi non potremo fermarci a fare nemmeno una foto decente (che spiega le poche foto in questo post, prese tutte dalla macchina in corsa), ma dovremo correre spediti per arrivare, tanto per cambiare, a Tbilisi a mezzanotte.
Entriamo a Batumi, rinomata località balneare, che e’ un gran caos e decidiamo di non fermarci a comprare una scheda dati Georgiana, ma di uscire subito da quell’inferno.
Appena usciti da Batumi, ci si inerpica su una splendida collina dalla vegetazione rigogliosa che ricorda l’Africa. Senza dati non abbiamo il navigatore, se non uno posticcio, che sta per mandarci in Abkhazia. Riprendiamo le vecchie mappe cartacee e da Poti svoltiamo ad est, verso l’interno, verso Tbilisi.
Non ci sono vere autostrade (se non gli ultimi 120 km) ma strade rurali in cui ci vogliono gran riflessi perché i Georgiani guidano con gran disprezzo per la vita umana (la seconda parte di notte, poi…). Ad aggiungere coefficiente di difficolta’ sono le mucche, che ogni tanto attraversano la strada
Il paesaggio e’ costellato di mercatini che vendono pane, pesce, miele, frutta e varie ed eventuali.
Dopo aver mangiato un ottimo Khachapuri, pane con formaggio locale, sulla strada arriviamo nottetempo a Tbilisi. Tbilisi di notte e’ splendida, specialmente negli stretti vicoli della parte vecchia, nella parte alta della città, dai quali si vedono splendide mura, chiese e forti illuminati. L’albergo e’ in cima a una collina e la povera Gengis non ce la fa ad arrivarci.
Vado a piedi all’ostello e chiedo aiuto al ragazzo della reception che si siede affianco a Francesco. Io mi posiziono nel vano di dietro tra la fisarmonica e la chitarra e, dopo varie buche con conseguente testata sul tetto, finalmente arriviamo all’ostello e al meritato riposo. Prima di dormire, riferendosi alla colazione del giorno dopo, Francesco canta “Breakfast at Tbilisi” sull’aria di breakfast at Tiffany’s. I miei occhi non fanno a tempo a guardarlo male. Sto gia’ dormendo.