Cronaca del viaggio esterno. Day 7. Tbilisi-Erevan. Monasteri, Duduk e Armeni riservati

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Di mattina presto salutiamo Iosif e Mari, i gentilissimi receptionist dell’ostello e, attraversando gli stretti vicoli del centro di Tbilisi con la Gengis Khar che passa più volte a pochi centimetri da rovinare gli adesivi degli sponsor, imbocchiamo la strada che da verso il confine Armeno. Stavolta abbiamo messo preventivamente in programma 5 ore di attesa alla frontiera. Arrivando alle 10 del mattino, ci resterà ancora tempo per vedere almeno un monastero sulla strada verso Erevan.

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Arriviamo in effetti proprio alle 10 del mattino e, con gran sorpresa, notiamo che la coda e’ piuttosto ridotta. Usciamo facilmente dalla Georgia ed eccoci alla frontiera con l’Armenia. Anche qui i passeggeri fanno una fila a parte. Il poliziotto Armeno, sorridente, mi chiede se sono diretto ad Erevan. Gli rispondo di si. E lui mi dice: “benvenuto in Armenia”. In napoletano gli dico: “ma comm’? Accussi’? Ma nu controllo? Ddoje domande?”. Mi guarda con lo sguardo tipico di chi non ha capito, ma neanche il tempo di fargli dire “what?” che esclamo: “thank you”. Mi dice che, pero’, prima di entrare devo andare alla banca della frontiera a pagare la “tassa ecologica”. Qui subiamo il nostro unico piccolo ritardo, che porterà l’attesa totale per passare la frontiera a un’ora (gran lusso).

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Il motivo non avrei mai potuto prevederlo. Davanti a me un enorme gruppo di pensionati Coreani. Si, coreani alla frontiera tra Georgia e Armenia, che devono cambiare dollari, valuta loro e vari spiccioli che gli sono rimasti in Lari georgiani.

Siccome ho ancora il napoletano “caldo”, l’attesa e’ tutta un borbottare (“e gghia’, ma pure ste quatt’spicci e’ a cagna’. Ma all’anima e (censura)”). Leggo nel volto di qualche coreano la domanda “ma questo che lingua sta parlando”. La risposta alla sua domanda arriverà più’ avanti nel racconto. Finita l’attesa, Francesco risale a bordo e un ultimo poliziotto ci ricorda: “don’t forget to buy Armenian insurance”.

La rotonda all’uscita dalla frontiera e’ circondata da piccole baracche con scritte in Armeno, in Russo e occasionalmente in inglese, che vendono chiaramente assicurazioni RCA.

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Nella rotonda, in circolo, sono posizionati vari bambini la cui posizione ricorda quella degli atleti che si accingono a iniziare la cento metri. Capiamo subito perché. Mentre giriamo attorno alla rotonda, non appena superiamo un bambino, lo stesso inizia a correre attorno alla macchina gridando: “Insurance, insurance, buy insurance”. Non appena raggiungiamo il secondo bambino, il primo si ferma e il secondo inizia a correre come in una staffetta, poi il terzo, il quarto e cosi’ via. Decidiamo di seguire il più persistente di loro fino al baracchino dove acquistiamo l’assicurazione.

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Il ragazzino ci propone anche: “Armenian SIM card?” – perché no.

Proseguiamo per meno di un chilometro e accostiamo al lato vicino ad altri baracchini per prendere due bottigliette d’acqua dal retro. Subito veniamo circondati da un gruppo di persone che domandano: “Armenian insurance?” – “We have it”. “Ok, Armenian SIM card?” – “We have it”. Sento alcuni di loro borbottare qualcosa in Armeno. Credo significhi “e che sfac.(censura)”.

Siamo in Armenia. Inizio a canticchiare “Armeno tu nell’universo”. Francesco mi guarda malissimo e minaccia di farmi scendere dalla macchina.

Come direbbero le guide turistiche: Armenia, terra di contrasti. E i contrasti li vedi gia’ dalle prime due cose che ti vengono in mente quando pensi all’Armenia: genocidio e Kim Kardashian. A me, pero’, viene in mente una terza: musica. L’Armenia e’ terra, tra l’altro, di grandi musicisti, oltre ad essere la terra del “duduk” un flauto in legno di albicocco, dalle origini antichissime e dal suono meraviglioso e inconfondibile.

Abbiamo subito l’occasione di sentirlo quando a Noyemberyan, poco dopo la frontiera, ci imbattiamo in una festa di paese.

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Varie bambine ballano in circolo su musiche moderne in ritmo 4/4 (tunz tunz) la cui melodia e’ resa dal suono acuto, appunto, del duduk.

Le coreografie si susseguono al suono incalzante e fastidioso del duduk, finche’ e’ il momento dell’acrobata, che si esibisce camminando sul classico filo da equilibrista davanti allo sguardo meravigliato dei bambini. Qualcuno stringe l’altro per l’emozione e la paura che possa cadere. Il tutto al suono insopportabile del duduk.

Decidiamo di proseguire e ci dirigiamo verso il primo dei monasteri sulla strada, il monastero di Gosh. Le decorazioni sulla pietra ricordano il signore degli anelli e la salita e’ sopportabile nonostante il mio forte mal di testa (che il duduk ha solo peggiorato).

Ci dirigiamo verso il lago di Sevan e il suo omonimo monastero. Prima, pero’, ho bisogno di mangiare. Il nome Gosh mi ha ricordato l’agnello nei menu dei ristoranti indiani e devo proprio mangiare. Ci fermiamo su un ristorante vista lago. Siamo fortunati. C’e’ una festa, la gente balla una musica tamarra dalle sonorità orientali dove spicca, onnipresente, il suono infernale del duduk. Posso dirlo, il duduk ha rotto il cazzo. *in realtà mi piace molto il duduk e l’Armenia e’ patria di grandi musicisti, ma siamo stati sfortunati con la scelta musicale dei posti visitati.

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Qui ho una dura lezione sulle percezioni. Varie persone si sono lanciate in balli sfrenati tra cui un enorme panzone che, a dispetto del fisico poco aggraziato, balla molto bene. Varie persone riprendono la scena con il telefonino. Capisco che ormai il telefonino e’ parte integrante del paesaggio moderno. Non disturba, si potrebbe quasi dire che e’ parte dell’habitat. Un po’ come le jeep dei turisti in safari fanno ormai parte del paesaggio del Serengeti. Gli animali sono abituati alla loro presenza. Una leonessa, all’epoca, utilizzo’ la nostra come scudo per attaccare la gazzella a sorpresa.

Ecco, i telefonini, sono parte dell’habitat, sono accettati, leciti, innocui. La macchina fotografica con zoom da paparazzo evidentemente no. Dopo aver ripreso la scena dei balli, soddisfatto dell’esito, mi avvio a mangiare gli spiedini di agnello che la vista del precedente monastero avevano evocato, quando tre armeni incazzatissimi vengono verso di me. Indicano la macchina fotografica e gridano frasi incomprensibili in Armeno.  Uno di loro mi strappa la macchina di mano, e mi invita a seguirlo nella stanza. Si aggiungono altri due armeni, altrettanto incazzati e altrettanto incomprensibili. Vogliono vedere e cancellare le foto. Provo a rassicurarli in inglese: “I will delete them”. Non capiscono e mi trascinano, brandendo la macchina come una clava, in un’altra zona del ristorante. Uno di loro cerca di cancellare le foto, ma non sa usare la macchina. Faccio per avvicinarmi in modo da spiegargli come si fa ma uno di loro, il più’ invasato, un vecchietto dal volto scavato, le spalle piccole e gli occhi azzurri, mi apostrofa con parole in Armeno che non capisco ma che hanno lo stesso effetto del suono del duduk.

Siccome loro mi si rivolgono tranquillamente in Armeno, io rispondo in napoletano, che ho ancora caldo: “guaglio’, facite  chello che vulite ma stateve accuort’, che l’aggio pavat’assaje sto obiettivo” “chianu chianu, mo’ te faccio avvere’ je comme se cancella”. A questo punto l’armeno dal volto scavato e le spalle piccole, avendomi sentito parlare qualcosa di diverso dall’inglese, crede di aver individuato la mia provenienza: “Irani”? – “No, Italia”. Dobbiamo stargli simpatici, perché a quel punto si tranquillizzano, finiscono di cancellare le foto e vanno a sedersi. Provo, nell’ormai lingua franca e a gesti a chiedere “ma pecche’ chill’ ponn’ fa’ ‘e video cu l’aifonno e je nun pozzo fa’ na foto?”, ma e’ tutto inutile. Non fa parte dell’habitat.

Visitato il monastero, riprendiamo il tragitto verso Yerevan, dove arriviamo con comodo alle sei del pomeriggio. Dopo una cena in un ottimo ristorante Armeno, andiamo a letto presto, stanchi dai chilometri accumulati. Domani visita a Yerevan e dintorni. Poi si punta verso il paese che il mio volto e la mia lingua evidentemente evocano, l’Iran.

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