Cronaca del viaggio esterno. Day 16 Da Quchan a Darvaza.

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Riposati in qualche modo in un albergo le cui stanze sono state lavate l’ultima volta quando il paese si chiamava ancora Persia, partiamo alle sette del mattino per essere presto a Benjiran, o Belgirate come la chiamo per ricordarne più facilmente il nome. Osservate i soliti murales di giovani con scritte in persiano (crediamo martiri della rivoluzione o qualcosa di simile), spesso accompagnati da disegni raffiguranti immancabili Ayatollah, controlliamo olio e liquidi e accendiamo il motore.

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Il cammino attraversa di nuovo montagne spettacolari, passi a 2500 metri e splendide valli verdi.

Arriviamo a Benjiran alle 8.30, in perfetta tabella di marcia per passare il confine Turkmeno (ci hanno detto di prevedere almeno 6 ore) ed entrare a Howat, da un passo di montagna che ci consentirà un’ottima vista di Ashgabat, la capitale, dall’alto. La frontiera non sembra affollata. Oltre a noi solo un gruppo di otto ciclisti europei (poi scopriamo essere composto da due spagnoli, una svedese, quattro olandesi e un intruso di Aruba con cui discuto del papiamento, la loro adorabile lingua creola). Il gentilissimo poliziotto iraniano ci dice di accostare la macchina e di abbassare il finestrino.

Si avvicina indicando “quattro” con le dita. Quattro cosa, proviamo a chiedere?

La frontiera, e’ chiusa per quattro giorni.

  • Perche’, chiediamo noi?
  • Chiedetelo ai Turkmeni, noi siamo aperti.

Come promesso, parlerò’, in questi post scritti dal Turkmenistan, in termini equi e giusti del paese, elogiandolo come merita sia il paese che il suo supremo e saggio leader. Faro’ cosi’ almeno fin quando non avrò’ lasciato il Turkmenistan. Sicuramente, la polizia di Howat ha degli ottimi motivi, dettati dal magnifico presidente Gurbanguly Berdimuhammedow, successore  dell’ancor più grande Sapamurat Nyazov detto Turkmenbasy, padre di tutti i Turkmeni, valoroso popolo senza pari al mondo.

Disperiamo. Altri quattro giorni in Iran sarebbero una disdetta per il nostro programma di viaggio. Proviamo a ragionare su una soluzione alternativa: la frontiera a Dargaz e’ aperta?

  • Si, e’ aperta, risponde il poliziotto Iraniano.

Siamo costretti a una deviazione di 120 km circa, inerpicandoci tra montagne ancora più alte per un ritardo di circa due ore sulla tabella di marcia.

Soprattutto non sappiamo se la nostra lettera di invito per il visto, predisposta per il passaggio a Benjiran sarà valida anche a Dargaz. Noi dovevamo entrare a Dargaz. E questi sono parano…., e questi nutrono giuste preoccupazioni per la sicurezza per difendere il loro magnifico, ineguagliabile paese.

Dopo due ore di serpentine arriviamo a Dargaz. In uscita svolgiamo i controlli piuttosto velocemente. Con noi un motociclista tedesco, somigliate a Sting in un modo inquietante, anche lui diretto in Mongolia.

Un attimo prima di uscire, pero’, c’e’ un ultimo controllo, le cui finalità imprecisate, che sembra riguardare i documenti della macchina, dove rimaniamo bloccati mezz’ora.

Un poliziotto rimesta scartoffie, mentre l’altro fa varie domande al tedesco e poi a me. La peculiarità dell’interrogatorio e’ che il poliziotto non parla inglese e utilizza una specie di google translator sul telefonino per fare le domande. Lui parla in persiano e il programma ripete la frase nella lingua del destinatario.

Tocca prima al tedesco. Il telefonino, in tedesco, gli chiede “da che paese vieni?”. Facile, l’ho capito anche io.

  • Deutschland, risponde Sting. In tedesco, e’ spontaneo, visto che risponde al telefonino che gli ha parlato in tedesco.

La seconda domanda non la capisco e, a giudicare dal volto di Sting, nemmeno lui. Il poliziotto prova a rifarla, riformulando. Sting capisce e, una volta che l’altro poliziotto finisce di mescolare scartoffie come un mazzo di carte napoletane, e’ libero di andare.

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E’ il mio turno.

Il poliziotto dice qualcosa in persiano: il telefono mi domanda: da che paese vieni?

Io: Italia (anche io in italiano, e’ proprio spontaneo).

Gia’ immagino che le prossime domande saranno “si, ma quanti siete?, un fiorino.

Invece no: la seconda domanda e’ “lei e’ sempre in viaggio?”

– Non sempre, di solito lavoro, rispondo in inglese, come se capisse quello che dico.

Non era questo che voleva domandarmi. Riformula la domanda in modo più chiaro e capisco che mi voleva domandare se e’ la prima volta che vado in Turkmenistan. Ovviamente si.

Prima di lasciarmi andare, chiede al telefonino un’ultima cosa in persiano. Il telefonino mi domanda: “trasporta pece nera?”

Rispondo deciso “no!”. Non so cosa voglia sapere, ma di solito la risposta alle domande che iniziano con “trasporta” e’ no.

Mentre me ne vado, da’ uno sguardo alla maglia del Napoli che indosso e, sorprendentemente, mi dice: Italia? Napoli?

Io: Si, Italia, Napoli.

Lui: Hamsik, Mertens, Maradona… Higuain merda!

Io: Bravo, Higuain merda!

Rivolgendosi a Francesco, invece: Francesco, Francesco Totti? (Totti risulta conosciuto in ogni angolo che abbiamo attraversato).

Lascio l’Iran più contento. Eccoci nel meraviglioso e saggiamente governato Turkmenistan.

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Due poliziotti all’ingresso ci stringono la mano (tutti i turkmeni, alla prima interazione con te ti stringono la mano, e’ quasi un tic nervoso) e poi ci chiedono il passaporto. Non vedono il visto: chiaro quello lo dobbiamo fare alla frontiera tramite la lettera di invito. Gliene facciamo vedere una copia. Dopo un minuto di attesa, ci guarda e..

Italia? Silvio Berlusconi. Welcome to Turkmenistan.

Arrivati alla frontiera, alla nostra destra una lunga fila di camion, immancabilmente turchi, alla sinistra il casermone, dove svetta l’immagine del saggio presidente. Francesco si reca presso il casermone per il controllo documenti, io cerco di capire che devo, parlando con un ragazzino, probabilimente militare di leva (qui la leva e’ di due anni). Il ragazzino, pero’, continua a ripetere frasi in Turkmeno che non capisco e ad aggiungere “scan”. Capisco che devo far passare la macchina per l’Hangar per uno scan, immagino per controllarne il contenuto. Ma non capisco dove e’. Ci provo in Inglese “where”, in simil-russo “kuda’”, persino in similturco “nereye”. Nulla.

All’improvviso vengo circondato da almeno 15 ragazzini in divisa militare (che in turkmenistan e’ una divisa mimetica con un cappello da scout dell’orso yoghi) e due o tre militari più anziani, incuriositi dalla macchina variopinta. Sanno del rally, ma di solito, tutti i team passano dalla frontiera che oggi era chiusa e per loro e’ raro vedere stranieri (a parte camionisti turchi) e la nostra visita e’ un momento di allegria. La scena si ripetera’ in tutto il Turkmenistan, paese poco avvezzo ai turisti. Uno di loro associa l’Italia a “tre metri sopra il cielo”, lo hai visto il film? Preferivo quasi Berlusconi.

Fanno domande sull’Italia, vogliono vedere foto e poi dicono: no scan, peron 1 (vai nella prima corsia). Dopo un’approfondito, quanto giusto e dovuto (la sicurezza del Turkmenistan prima di tutto) controllo del furgoncino mi chiedono, con un sorriso se trasporto kalashnikov, granate o altre armi. Mi chiedo come mai non mi abbiano chiesto anche dell’atomica. Un poliziotto più anziano, molto simpatico, prende in carico la mia missione di attraversare la frontiera e mi dice: qualsiasi problema, vieni da me e ti aiuto. Poi mi appioppa un GPS, un aggeggio enorme da attaccare la macchina per consentire di tracciare il nostro percorso.

Che carini, cosi’ ci possono aiutare se ci perdiamo. Sicuramente non ce lo chiedono per verificare se rispettiamo l’itinerario che abbiamo dichiarato (e che ci chiedono tre volte di confermare. Il Turkmenistan e’ grande vogliono essere sicuri che sappiamo la strada).

La faccio breve. I controlli durano in totale 5 ore e mille fogli di carta firmati. Ogni volta che sto per uscire un altro poliziotto mi ferma per chiedere se sono andato a un altro sportello a mettere un altro timbro. Ogni documento viene compilato rigorosamente a mano. I Turkmen sono famosi nel mondo per la loro calligrafia e sarebbe un peccato usare un computer. E’ giusto cosi’, e’ importante proteggere la sicurezza dei confini. Alla fine si esce, ed un poliziotto mi saluta con un “Forza Napoli” (la maglietta ha fatto colpo). Lo ringrazio ed entriamo finalmente nel paese.

Non riusciamo a trovare un cambio-valuta. Il poliziotto ci indica un signore in una macchina bianca, ma non ha abbastanza Manat da darci.

E’ gia’ tardi e dobbiamo metterci in viaggio verso Darvaza, un luogo bizzarro e suggestivo: un cratere in cui i sovietici stavano svolgendo ricerche per estrazione di gas negli anni settanta quando c’e’ stata una fuga potenzialmente catastrofica. Per contenerla hanno bruciato il cratere, che continua ad ardere da allora.

Ci e’ stato detto che la strada per arrivarci si inoltra in mezzo alle dune del deserto per una decina di chilometri, troppo per Gengis. Va trovato qualcuno che ci porti fino al cratere. E non siamo sicuri di trovarli qualora dovessimo arrivare troppo tardi. Quindi cerchiamo di arrivare prima del tramonto.

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Il cratere e’ nel mezzo dell’aridissimo deserto di Karakum. Fa talmente caldo, persino nel tardo pomeriggio, che l’aria condizionata e’ inutile. Ogni tanto qualche cammello spezza la monotonia del paesaggio (pur meraviglioso, come tutti i paesaggi turkmeni).

Arriviamo in tempo, nonostante uno slalom tra i profondissimi crateri che decorano il fondo stradale per circa cento chilometri (sicuramente inseriti di proposito dall’ineffabile leader per non permettere agli autisti cali di concentrazione e colpi di sonno causati dalla strada dritta e ordinata).

Ci sono tre team del Mongol rally: due inglesi e un danese. Loro hanno appena chiuso la contrattazione per farsi portare al cratere in macchina. L’unica macchina e’ presa. A noi non resta che la motocicletta (di quelle degli anni 50 in uso qui). L’esperienza e’ da brividi. I due motociclisti sfrecciano sulle dune di sabbia sollevando un polverone e riuscendo miracolosamente a tenere le moto in piedi. Vedere dalla propria moto il polverone delle altre due moto che, alla mia destra, volano come bolidi verso il cratere, e’ una scena da film di Indiana Jones.

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Dopo i brividi dati dall’insensata corsa tra le dune, quelli dati dalla vista del cratere. E’ uno spettacolo e merita il nome di “bocca dell’inferno” che gli e’ stato attribuito. Sembra il forno di Mordor del signore degli anelli. Ci butto dentro l’anello che volevo regalare alla mia ex. Non e’ vero, ma ci sta :). Il cratere emana un intenso odore di gas e ogni tanto arriva una forte vampata di caldo portata dal vento.

I due motociclisti ci riaccompagnano alla Gengis, dove ci toccherà’ dormire sotto le stelle. Siamo in mezzo al deserto, intorno non c’e’ proprio nulla. Il Turkmenistan e’ un paese prevalentemente desertico (il deserto di Karakum, che significa, sabbie nere, occupa due terzi del territorio) ed e’ scarsamente popolato a parte nelle sue grandi città.

Ma ho gia’ scritto abbastanza per oggi. Il racconto della nottata su Gengis lo lascio al Day 17: da Darvaza a (forse) Turkmenabad.

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