Davanti a una pira di fuoco accesa nel mezzo della steppa solitaria, la sciamana mi dice:
– dimentica quella donna.
– quale donna? Le dico io
– dimenticala, non può venire nulla di buono da lei. Solo sofferenza.
– Si, ma quale donna?
Fa freddo, la temperatura qui di notte scende drasticamente. L’unico rumore che si sente sono i piccoli scoppi della legna che brucia e un venticello freddo che agita il fuoco. Fuoco al quale mi avvicino per riscaldarmi.
– ascoltami bene, devi dimenticarla, devi starle lontano, ne va del tuo futuro. Credimi, quanto è vero che mi chiamo Munguur.
– Quale donna?
– Ssst, ascolta la natura. Dimenticala.
– D’accordo. Farò il possibile per starle lontano, anche se non so chi è. Anche coi pensieri?
– Certo, devi dimenticarla
– Lo farò, grazie, Munguur
– Chi è Munguur?
– Tu, non hai appena detto che..
– Io mi chiamo Khanut
– E allora quella donna?
– Quale donna?
Mi sveglio dopo una notte tormentata e ricca di incubi e sogni dal misterioso significato. In uno c’è Bersani e non Samuele, il politico. Il vento di tormenta ha spalancato la finestra semi-rotta e la notte a Mozzacane fa freddo, il letto era un pezzo di legno più scomodo della Gengis e la finestra aperta ha rivelato un cimitero di mosche spiaccicate tra i vetri. Insomma, nottataccia. Con gli occhi ancora semichiusi dalla spossatezza ci prepariamo ad affrontare l’ultimo tratto di piste fino alla Baia dei Canguri.
I paesaggi sono sempre splendidi quanto desolati. Ma la strada è davvero impossibile. Per percorrere 180 km ci occorrono sei ore e mezza circa. Attraversiamo una zona “infestata” dalle marmotte, che mi riportano alla mente il giorno della marmotta: ci sembra sempre di essere sempre daccapo e nello stesso punto.
La strada invece di migliorare peggiora ogni chilometro.
Ogni metro è un attentato a gomme e sospensioni della povera Gengis, che barcolla ma non molla. Dopo interminabili chilometri arriviamo alla Baia dei Canguri, dove ci fermiamo per fare rifornimento e constatiamo che Gengis ha tirato su un po’ di polvere.
Inizia finalmente la strada asfaltata ed è un gran bell’andare. Mentre il cielo comincia a diventare sempre più nuvoloso, tiriamo avanti in direzione di Viva l’Ikea (non me lo ricordo proprio il vero nome di sta città).
Ci arriviamo verso le sei e, contentissimi, decidiamo di fare un’interminabile doccia per rimuovere i chili di polvere che noi, come Gengis, abbiamo mangiato. Tramite chat scopriamo che anche il team spagnolo è appena arrivato a Viva l’Ikea e proponiamo di mangiare qualcosa insieme. Ci chiedono la cortesia di andare verso il loro albergo perché sono distrutti: hanno forato la ruota tre volte e il tragitto è durato un’eternità. Diceva il grande de Filippo che essere superstiziosi è da stupidi, non esserlo porta male. Ecco, non facciamo a tempo a dire “incredibile, in migliaia di chilometri non abbiamo bucato una gomma”, che al ritorno in albergo ci ritroviamo con una ruota a terra.
Siamo anche noi esausti e la ruota la cambiamo la mattina seguente, dove ci avviamo verso l’ultimo tratto, quello che porta a Ulan Bator, la nostra meta finale.
Sulla strada troviamo un posto bizzarro, che ci aveva indicato Lichay, il soldato israeliano di Mozzacane. In quel punto una grande duna di sabbia va a infrangersi su un prato verdissimo. Ci fermiamo ad osservare il curioso fenomeno.
Riprendiamo la strada verso Ulan Bator. Sapendo che la strada è asfaltata abbiamo stupidamente creduto che la nostra ultima tappa sarebbe stata come l’ultima tappa del Tour de France, una gioiosa passeggiata fino agli Champs Elysees. Il fondo invece è sconnesso e pieno di trappole e non ci va di cambiare ulteriori gomme. Accompagnati dagli immancabili cammelli, guidiamo con prudenza.
Dopo vari chilometri di buche all’improvviso, dopo una curva, si intravede la nostra destinazione finale, Ulan Bator.
Mi lascio andare a un’esclamazione nella mia lingua: “Uillann’, Bator”. Francesco è troppo stanco per guardarmi male.
La nostra intenzione iniziale è di visitare la mastodontica statua di Gengis Khan a 50 km ad est, ma dobbiamo cambiare subito i nostri piani. Il traffico di Ulan Bator è infernale. Ci vogliono due ore e mezza dalla periferia al nostro albergo.
Decidiamo allora di fare una visita alla piazza centrale che dista poco dall’albergo e sederci a guardare il passeggio degli Ulanbatoresi.
Ci mettiamo in contatto con l’organizzazione per andare alla finish line e organizzare una visita ad uno dei progetti di gohelp. Il giorno dopo è il turno della finish line, subito dopo la quale, in quanto proprietario del veicolo, mi tocca andare dal notaio dove, dopo un paio d’ore, insieme a Marco del team spagnolo, perfezioniamo le pratiche della donazione dei rispettivi furgoni.
Il giorno successivo è quello della visita ad uno dei progetti di Gohelp. Gohelp, insieme a Fondazione Paracelso, e uno dei due destinatari delle donazioni che abbiamo raccolto. Nel prossimo post vi mostrerò dei video relativi ai due destinatari e un breve video relativo alla nostra giornata di visita al progetto.
Il progetto che visitiamo è una biblioteca, accessibile dai bambini di una ex città mineraria a pochi chilometri da Ulan Bator, impoveritasi a seguito della chiusura delle miniere di carbone. Donald direbbe che we’re gonna dig so much coal, you’re gonna be tired of digging, and we will make Mongolia great again. Ma pensiamo che questo progetto possa essere più utile ai bambini del luogo.
L’allegria dei bambini, contentissimi di vedere stranieri e di provare le frasi che hanno imparato in inglese, è contagiosa e la mattinata da loro è senz’altro uno dei momenti più belli del viaggio. Lasciamo il progetto ancora più contenti di essere riusciti a portare la Gengis fino a Ulan Bator.
Ci manca un ultimo tassello per ritenere il viaggio concluso: la visita al mastodontico monumento di Gengis Khan, dove ci esibiremo nella posizione yoga richiesta con la donazione da Silvia Facchinello e la sua scuola di yoga.
Dopodiché seguono giornate di riposo forzato date dall’impossibilita’ di trovare un aereo in una data sufficientemente prossima, con frequenti visite all’improbabile quando carino pub irlandese di Ulan Bator che si chiama Grand Khan. E, infine, una dura sveglia alle 3 del mattino per seguire Napoli-Nizza, dopo aver operato alla men-peggio il mio rituale scaramantico.
La seguo in streaming e il telecronista è russo, occasione per sentire altre splendide pronunce russe: Luorenza Insigni, Ghuliam, Dris Miertens, Jorginha e, soprattutto, il capitano, Marek Gamsik. Il viaggio è finito.
Non il blog. Il prossimo post sarà sui destinatari delle donazioni e conterrà il video della giornata di visita al progetto Gohelp. Seguiranno poi dei post di epilogo e di riassunto delle sensazioni del viaggio, oltre alle nostre top 10/pagelle.
Qualora dovesse mancare quel pizzico di avventura, che in questo ultimo post è latitata un po’, non vi preoccupate: stanotte c’è da prendere un bus sgarrupato fino a Ulan Ude in Siberia, di notte, per 10 ore di viaggio con frontiera annessa, da dove io prenderò un volo per Mosca domenica e passerò una giornata nella capitale della grande madre Russia. Francesco, che ha trovato il primo aereo per Bruxelles solo il 22, passerà altri due giorni ad Ulan Ude, forse con visita al lago Bajkal. Insomma, c’è un’appendice.