Cronaca del viaggio esterno. Day 29. Da Alcatel (Altan Teel) a Mozzacane (Buutsangaan). Polvere, cammelli e Adam Sandler

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Lasciamo Alcatel diretti alla Baia dei Canguri. Sappiamo che fino a lì il cammino è composto solo da sterrato, polvere, pietre minacciose, piste che si intersecano come un labirinto dove però è facile non perdersi: come ci hanno consigliato prima di partire, basta andare sempre ad est. Prima o poi da qualche parte si arriva.

La prima parte è abbastanza agevole, finché non arriviamo a Gob-Altai, la porta del deserto del Gobi. Da lì fino alla baia dei canguri la “strada” attraverserà la parte esterna del deserto. Ci aspettiamo quindi tanta polvere e, immaginiamo, qualche cammello.

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In effetti la polvere è dappertutto e così anche i cammelli che allietano un paesaggio altrimenti più monotono della splendida parte montuosa dell’Altai mongolo.

Quello che non ci aspettiamo è la difficoltà delle strade. Ci hanno detto che guidare in Mongolia non è semplice ma ci aspettavamo di sfrecciare su piste sull’erba. In qualche tratto è effettivamente così ed è anche molto divertente.

Ma quasi dappertutto è un susseguirsi di fossi, gobbe, pericolose pietre, piccoli corsi d’acqua da attraversare.

In sostanza, marciamo all’invidiabile media di 40 all’ora (e il giorno dopo andrà anche peggio).

Svariati cammelli più tardi decidiamo di fermarci al primo paesino che troviamo (qui i paesini sono ogni 80/100 km, e per percorrere queste distanze, come detto, ci vuole un po’ di tempo).

Il paesino ha in nome (Butsagaan o qualcosa del genere), che assomiglia a “puzzacane”, che decidiamo di addolcire in “Mozzacane”. Entriamo nel paesino nella speranza che ci sia un posto per dormire.

Non è scontato, perché il paesino sembra fare tipo 300 abitanti e almucche. Francesco scende dalla macchina esclamando, a voce alta: “Cittadini di Mozzacane, siamo arrivati!”. Alcuni bambini si girano curiosi.

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Dopo aver comprato da bere e un accendino in in piccolo negozio locale, mostriamo alla ragazzina del negozio la traduzione di albergo in Mongolo, зочид бууддал.

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La ragazzina ci indica un edificio, dove Francesco entra. Esce dicendo: Fefe’ qui non c’è nessuno. Entro anche io. Effettivamente è vuoto, sembra semi abbandonato. Fuori all’albergo, però, c’è un numero di telefono. Lo chiamo.

La conversazione non è memorabile, dopo aver chiesto se parla inglese o russo e, constatato che parla solo mongolo, inizio a ripetere зочид бууддал. La pronuncia non deve essere impeccabile perché noto dell’incertezza nelle sue incomprensibili frasi in mongolo. A un certo punto decido che ha detto: “aspettatemi qua, sto venendo”.

Per fortuna è così. Ci fa vedere le stanze, dei pezzi di legno al posto del letto e latrine esterne per i nostri bisogni. Il posto non è confortevole ma è l’unico che c’è a Mozzacane, quindi lo prendiamo.

Il vecchio signore ci porta anche all’unico “ristorante” della zona, dove una signora ci scongela dei Manti (specie di ravioli centro-asiatici) e ce li bollisce.

Prima di andarcene verso l’albergo, fotografo un motociclista dal volto impolverato.

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Mi saluta, ci presentiamo, è un ex ufficiale dell’esercito israeliano, di nome Lichay, che si era stancato di quel tipo di vita e da un anno, e per altri due, girava il mondo all’avventura imparando nuove lingue e vedendo nuovi posti. Il ritorno ad Israele previsto per il 2019.

Beviamo qualche birra e scambiamo informazioni sulle strade. Anche lui ha notato che con gli stranieri i poliziotti qui sono piuttosto indulgenti e in genere non li fermano.

Francesco gli chiede: come fanno a capire che sei straniero?

– Beh, di solito non porto il casco, quindi mi vedono e lo capiscono. E se porto il casco, capiscono che sono straniero perché porto il casco.

Assomiglia molto ad Adam Sandler in Zohan (e l’accento è identico).

Ci racconta qualcuna delle avventure che gli sono capitati e di quella volta che si è dovuto tirare d’impiccio minacciando il malintenzionato con un coltello che ha sul fianco sotto la camicia e che maneggia con gran destrezza.

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Salutiamo Lichay e torniamo in albergo dove, per passare la notte, proviamo ad allestire l’ennesimo improbabile duetto musicale. Quello con la figlia della signora dell’hotel è pure riuscito bene, con coretto di folla di curiosi che cantava la canzone in mongolo, ma purtroppo non è stato filmato.

Andiamo a dormire pronti ad altri 180 km di strade impossibili fino alla nostra oasi alla fine del deserto, la leggendaria baia dei canguri.

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